Otello 2.0 – La gelosia ai tempi di Facebook

Qualche giorno fa mi è capitato di assistere ad una scena che, fino a pochissimi anni fa, avrei giudicato assurda.

In attesa del treno verso casa, ero in piedi in stazione, buttando un occhio allo smartphone e uno ai passanti.
Non più vigile del solito, né particolarmente distratta, rimuginavo sui miei impegni della settimana.
Ad un certo punto sento, pur avendo gli auricolari ben piantati nelle orecchie e la musica accesa, una voce dietro di me:

le voci intorno erano tante, a colpirmi non è stata la presenza di altri esseri umani: è stato il tono di una voce in particolare ad attirare la mia attenzione,
molto serio e autoritario.
La prima impressione che ho avuto è stata quella di un padre che rimproverava il figlio maleducato. Spinta da curiosità, mi sono voltata.

A parlare era un ragazzo, a giudicare dal viso mi sembra un mio coetaneo. Direi poco più di venticinque anni. Pizzetto appena accennato, giubbotto di un colore acceso, corporatura media.
Il suo interlocutore però non era evidentemente il figlio ma una coetanea, una ragazza di circa 25 anni. Teneva i capelli umidi raccolti sotto il cappuccio del giubbino, per la pioggia che avrà incontrato prima di ripararsi in stazione.

Come me, i due ragazzi probabilmente tornavano a casa dopo una giornata passata a studiare, o lavorare. Il mio desiderio di svago mi ha portato ad accendere il mio lettore di musica: i due ragazzi non stavano cercando di rilassarsi come facevo io, perché per loro quel momento di attesa del treno era diventata un improrogabile momento di decisioni.

Potevo letteralmente sentire la ruga sulla fronte di lui tirarsi mentre pronunciava le parole,
parole a cui il viso di lei sembrava reagire corrucciandosi, fino a tenderle gli angoli della bocca in una smorfia preoccupata.

A quel punto il suo parlare con autorevolezza culmina in una serie di regole: mi pare di capire che lui le stia dando una seconda possibilità: un aut aut a cui lei dovrà dire sì o no, nel tempo che ci vuole per aspettare che le porte del treno si aprano e richiudano.
Le regole sono molto chiare, una dopo l’altra. Ad ogni regola lei annuisce e mi sembra di vedere la sua testa sprofondare nelle spalle.

<<Io ti do la password a te e tu la tua password a me. Non si cambiano.

Ti devi mettere fidanzata su facebook con me, hai un mese di tempo.

Devi levare tutte le amicizie, non voglio che succeda un’altra volta.>>

Raramente, nel parlato quotidiano, si riesce a percepire la differenza tra i segni di interpunzione: il tono del ragazzo era talmente autoritario e che non c’erano virgole nè punti esclamativi.
Frasi staccate l’una dall’altra, separate da secchi e concisi punti.
Come nelle migliori scene cariche di pathos, a fine discorso il treno era arrivato e la ragazza doveva salire. Lui l’aveva accompagnata, per cui è rimasto in banchina a salutarla, aspettando che il fido custode treno la scortasse fino a casa.

Chiamami quando sei a casa
Va bene
Stai attenta
Va bene

Lui era molto protettivo, ma lei non sembrava rasserenata: si stringeva un dito una volta trovato un posto a sedere, e dopo un po’ ha preso il telefono dalla tasca.

Questo breve aneddoto non ha una morale, ve lo anticipo.

Il mio primo e unico pensiero è stato che, a dispetto di quanto e cosa se ne dica, non è vero che internet ci rende liberi a prescindere, ma assolutamente non si può dire il contrario. I social network non sono cattivi nè buoni e chi li usa non è stupido nè intelligente.
Tutto o quasi ci è concesso fare, tranne quello che è vietato dalla legge.

Una cosa soltanto, possiamo dire con certezza:
quella scena era degna di un dramma teatrale.
Le vene del collo del ragazzo erano la più elaborata regia a cui avessi mai assistito, e le sopracciglia tremanti di lei degne di un paio di Oscar.

Non importa come ci barcameniamo e come gestiamo le nostre vite da sempre connessi:
Stiamo sviluppando un’attitudine al Pathos che può colorare un piovoso mercoledì pomeriggio in attesa del treno.